lunedì 7 settembre 2015

UNA VISITA ALL'ISOLA DI PLASTICA



L'esistenza dell'isola del Pacifico fu preconizzata in un documento pubblicato nel 1988 dalla National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA) degli Stati Uniti. Le predizioni erano basate su risultati ottenuti da diversi ricercatori con base in Alaska che, fra il 1985 e il 1988, misurarono le aggregazioni di materiali plastici nel nord dell'Oceano Pacifico.

Queste indagini trovarono elevate concentrazioni di detriti marini accumulati nelle regioni dominate dalle correnti marine. Basandosi su ricerche effettuate nel Mar del Giappone, i ricercatori ipotizzarono che condizioni similari dovessero verificarsi in altre porzioni dell'Oceano Pacifico, dove le correnti prevalenti propiziavano lo sviluppo di masse d'acqua relativamente stabili. I ricercatori indicarono specificamente la zona di convergenza del Vortice subtropicale del Nord pacifico.

Per diversi anni alcuni ricercatori oceanici, tra cui Charles J. Moore, hanno investigato a fondo la diffusione e la concentrazione dei detriti plastici presenti nel Vortice subtropicale del Nord Pacifico.

La concentrazione stimata della plastica è di 3,34 × 106  frammenti per km², con una media di 5,1 kg/km² raccolti utilizzando una rete a strascico rettangolare delle dimensioni di 0,9×0,15 m. A 10 m di profondità è stata individuata una concentrazione pari a poco meno la metà di quella in superficie, con detriti che consistono principalmente di monofilamenti, fibre di polimeri incrostati di plancton e diatomee.

Si tratta di un'immensa massa di spazzatura che vaga nell'Oceano Pacifico: oltre 21 mila tonnellate di microplastica, in un’area di qualche milione di kmq con una concentrazione massima di oltre un milione di oggetti per kmq. L’accumulo è noto da parecchio tempo, perlomeno dalla fine degli anni ’80, e ha un'età di oltre 60 anni. Un gigantesco vortice di correnti superficiali ha concentrato in quest’area i rifiuti formati principalmente da materiali plastici gettati o persi da navi in transito, o scaricati in mare dalle coste del Nord America e dall’Asia. Questa concentrazione, oltre che dall’effetto focalizzante delle correnti, dipende dal fatto che la plastica non è biodegradabile e permane per tempi lunghissimi nell’ambiente. Una lentissima degradazione a opera principalmente della luce del Sole, scompone i frammenti plastici in sottili filamenti caratteristici delle catene di polimeri. Questi residui, non sono metabolizzabili dagli organismi, e finiscono per formare un vero e proprio “brodo” nell’acqua salata dell’oceano.
Mentre i rifiuti galleggianti di origine biologica sono spontaneamente sottoposti a biodegradazione, in questa zona oceanica si sta accumulando una enorme quantità di materiali non biodegradabili come la plastica e rottami marini. Anziché biodegradarsi, la plastica si fotodegrada, ovvero si disintegra in pezzi sempre più piccoli fino alle dimensioni dei polimeri che la compongono; nondimeno, questi ultimi restano plastica e la loro biodegradazione resta comunque molto difficile. La fotodegradazione della plastica può produrre inquinamento da PCB.



Il galleggiamento delle particelle plastiche, che hanno un comportamento idrostatico simile a quello del plancton, ne induce l'ingestione da parte degli animali planctofagi, causandone l'introduzione nella catena alimentare. In alcuni campioni di acqua marina presi nel 2001 il rapporto tra la quantità di plastica e quella dello zooplancton, la vita animale dominante dell'area, era superiore a sei parti di plastica per ogni parte di zooplancton.

Ricerche compiute dalla Woods Hole Oceanografic Institution hanno rivelato che il sistema costituisce una nuova nicchia ecologica, informalmente chiamata "platisfera", dove la plastica è colonizzata da circa mille tipi diversi di organismi, eterotrofi, autotrofi, predatori e simbionti, tra cui diatomee e batteri, alcuni dei quali apparentemente in grado di degradare la materia plastica e gli idrocarburi. Nella "platisfera" si ritrovano anche agenti potenzialmente patogeni, come batteri del genere vibrio. La plastica, a causa della sua superficie idrofobica, presenta una maggior resistenza alla degradazione e si presta a essere ricoperta da strati di colonie microbiche.

Occasionalmente, improvvisi mutamenti nelle correnti oceaniche provocano la caduta di interi container trasportati da navi cargo, il cui contenuto non solo va ad alimentare il Nord Pacific Gyre, ma anche ad arenarsi su spiagge poste ai confini del PTV. La più famosa perdita di carico è avvenuta nel 1990, quando dalla nave Hansa Carrier sono caduti in mare ben 80.000 articoli, tra stivali e scarpe da ginnastica della Nike che, nei tre anni successivi, si sono arenati tra le spiagge degli stati della British Columbia, Washington, Oregon e Hawaii. E questo non è stato l'unico caso: nel 1992 sono caduti in mare decine di migliaia di giocattoli da vasca da bagno e nel 1994 attrezzature per hockey su ghiaccio. Questi eventi notevoli sono molto utili per determinare, da parte delle diverse istituzioni interessate, i flussi delle correnti oceaniche su scala globale.

Il maremoto che ha colpito la costa orientale giapponese l'11 marzo 2011 ha provocato un enorme afflusso di detriti nell'oceano, questi galleggiando, spinti dalle correnti si sono distribuiti nell'oceano Pacifico, raggiungendo anche la costa americana. Uno studio condotto nel luglio 2012, ha rivelato che parte dei detriti galleggianti si sono accumulati nel Pacific Trash Vortex accrescendolo fino ad una larghezza di 2000 miglia, di questi solo il 2% non è costituito da plastica.

A seguito di ricerche condotte con una serie ventennale di crociere scientifiche svolte fra il Golfo del Maine e il Mar dei Caraibi, la ricercatrice Kara Lavender Law ha riscontrato anche nell'oceano Atlantico un'elevata concentrazione di frammenti plastici, in una zona compresa fra le latitudini di 22°N e 38°N, corrispondente all'incirca al Mar dei Sargassi. Simulazioni al computer hanno individuato due altre possibili zone di accumulo di rifiuti oceanici nell'emisfero meridionale: una nell'oceano Pacifico a ovest delle coste del Cile e una seconda allungata tra l'Argentina e il Sud Africa attraverso l'Atlantico.



L’Isola di Plastica non e’ presente solo nell’Oceano Pacifico ma anche in Atlantico e probabilmente in Mediterraneo, non è solo un disastro ambientale incalcolabile ma è la metafora più precisa e terribile del fallimento del nostro modello di sviluppo. E’ un’ isola in mezzo all’oceano, quindi non è di nessuno, e nessuno se ne assume la responsabilità, tanto che i dati scientifici sono frammentari e acquisiti per la maggior parte con il contributo di associazioni ambientaliste come la SEA (Sea Education Association) che ha raccolto i dati dell’ultimo studio pubblicato su Environmental Science & Technology. E’, infine, la materializzazione del nostro incubo da “apprendisti stregoni” in un Pianeta che pretendiamo di controllare attraverso scorciatoie di comodo, che non prendono in considerazione l’impatto delle nostre azioni sull’ambiente e che, inevitabilmente, ci si ripercuotono contro.

Studi recenti hanno stimato che solo il vortice del nord Pacifico ha generato un’isola formata da almeno 15mila tonnellate di plastica. La maggior partre dei detriti rimane nel vortice, ma ogni giorno un’importante percentuale arriva sulle coste e riprende a vagare nel mare.

A causa dei raggi ultravioletti che fotodegradano i pezzi di plastica e all’azione delle onde i rifiuti si riducono in pezzetti che i pesci e gli uccelli marini scambiano per cibo.

Sebbene sia difficile stabilire il reale impatto di questo tipo di inquinamento, uno studio del Wspa (World Society for the Protection of Animal) risalente al 2012 indica che ogni anno, tra le 57 e le 135mila balene rimangono intrappolate da rifiuti plastici. Questo in aggiunta all’inestimabile quantità -ma si ipotizza siano milioni- di uccelli, tartarughe, pesci e altre specie vittime dell’inquinamento da plastica.

C’è un particolare di cui tener conto: secondo quanto recentemente verificato, la plastica ingerita danneggia gli organi interni dei pesci oltre a rilasciare sostanze velenose nei tessuti degli animali e questo ricade immediatamente nella questione della sicurezza di quello che mangiamo. Se non vogliamo farlo per i pesci, facciamolo almeno per noi: che il prossimo dentice che mangiate sappia solo di dentice e non sia aromatizzato agli ftalati, dipende anche da noi.


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